La Loggia dei Lanzi: Miti e leggende in Piazza della Signoria

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Che cosa ci raccontano le statue? Durante il 1500 Cosimo I de Medici creò in piazza della Signoria un vero e proprio museo a cielo aperto, per il proprio piacere ma anche e soprattutto per impressionare con la statuaria delle collezioni medicee. Sono quasi tutti degli originali, opere di grande valore che troviamo di fronte al Palazzo e nell’adiacente Loggia della Signoria, detta anche “Loggia dei Lanzi”. La Loggia fu infatti costruita nel 1370-80 per organizzare assemblee e cerimonie pubbliche ma, nel 1500 cambiò completamente la sua funzione. Cosimo I la adoperò come acquartieramento per il corpo di guardia e pare che questo fosse in parte composto da Lanzechenecchi. Da qui il nome “Loggia dei Lanzi”.

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Le Statue

Le statue che possiamo tutt’oggi ammirare costituiscono un vero e proprio ciclo allegorico laico e molte di queste sono ispirate ai racconti mitici della civiltà greca.

Gli antichi greci avevano una propria concezione del mondo: animavano e personificavano i fenomeni naturali attraverso la propria immaginazione, dando così vita a miti e leggende.

Le numerose storie che hanno per protagonisti eroi, umani, dei e semidei si sono tramandate nel corso dei secoli, mantenendo il loro fascino, e sono ancora profondamente radicate nella memoria della società moderna. Nel corso del Medioevo le invasioni barbariche non sono state sufficienti a cancellare l’antichità pagana e nel Rinascimento la civiltà classica viene riscoperta e presa ad esempio come modello dei più alti valori umani.

Quali sono quindi le statue nella piazza che rappresentano figure mitologiche e che cosa ci raccontanto?

Nettuno (Ammannati, 1574)

Nel 1559 Cosimo I de’ Medici bandì un concorso per creare la prima fontana pubblica di Firenze, al quale parteciparono i più importanti scultori fiorentini dell’epoca: venne scelto il Nettuno di Bartolomeo Ammannati, giudicato più adatto ad esaltare i gloriosi traguardi marinari raggiunti in quei decenni dal Granducato di Toscana.

L’apparato scultoreo venne eseguito tra il 1560 e il 1565, e fu inaugurato in occasione delle nozze tra Francesco I de’ Medici e la granduchessa Giovanna d’Austria il 10 dicembre 1565. La statua principale, tuttavia, fu attorniata da pezzi provvisori e solo nel 1574 venne completata la fontana nel suo assetto architettonico e decorativo secondo il progetto dell’Ammannati.

La figura di Nettuno, il dio del mare, è realizzata in marmo bianco di Carrara e riprende i tratti di Cosimo I de’ Medici. Nettuno si erge su un piedistallo decorato con le statue di Scilla e Cariddi al centro della vasca ottagonale, che contiene i quattro cavalli del cocchio. Ai suoi piedi stanno tre tritoni e agli angoli della vasca sono presenti gruppi di divinità marine, ciascuna delle quali ha ai piedi un corteo di ninfe, satiri e fauni in bronzo.

La scultura marmorea tuttavia non fu apprezzata dai fiorentini, che scherzosamente diedero al Nettuno il soprannome di “Biancone” e derisero l’artista con il loro noto sarcasmo: “Oh Ammannato Ammannato che bel marmo t’hai sprecato!”

Il Marzocco

La Repubblica fiorentina ha sempre avuto due simboli antichissimi: il giglio e il “Marzocco”, ovvero un leone araldico che sorregge con la zampa destra lo scudo col giglio.

Anche Dante nella Divina Commedia riporta la leggenda secondo cui la città sarebbe stata inizialmente dedicata a Marte, dio della guerra. Il nome “Marzocco” deriverebbe quindi dal latino “martocus”, traducibile come “piccolo Marte”.

Il leone fu scelto dalla Repubblica fiorentina a dimostrazione della potenza politica: questo animale infatti sarebbe stato l’unico in grado di uccidere l’aquila, allora simbolo imperiale, nonché dell’odiata Pisa.

Oggi nella piazza troviamo una bella copia della scultura in pietra serena che Donatello eseguì nel 1419 (l’originale al Museo del Bargello): l’artista lo rappresentò in atteggiamento di vigilante quiete sul cosiddetto “arengario” del centro politico.

Il leone con la sua simbologia di forza, coraggio e sovranità, arrivò ad impersonificare il popolo fiorentino in armi. Tanto era l’affetto dei cittadini per questa immagine che, a volte, venivano chiamati dai loro nemici “marzoccheschi”.

Ercole e Caco (Bandinelli, 1534)

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©Diletta Masi

Quest’opera fu commissionata a Baccio Bandinelli da Papa Clemente VII (ex cardinale Giulio de Medici) per esaltare in chiave allegorica la forza del nuovo governo mediceo, rappresentato in quel momento da Alessandro I. La troviamo proprio di fronte a Palazzo Vecchio, a destra della copia del David di Michelangelo.

Ercole è l’eroe per eccellenza, una delle figure più famose e popolari di tutta l’arte classica, personificazione del coraggio e della forza fisica.
Nasce dall’unione di Alcmena con Giove, che seduce la donna assumendo le sembianze dello sposo di lei, Anfitrione. Per questo motivo Giunone, sposa di Giove, serberà sempre un forte rancore nei confronti dell’eroe e compirà la sua vendetta molti anni dopo.

Una volta adulto Ercole si unisce in prime nozze con Megara, la figlia del Re di Tebe, Creonte, e dalla loro unione nascono tre figli. Un giorno, mentre si trova in preda ad un attacco di follia, provocatogli da Giunone, Ercole uccide tutta la sua famiglia. Una volta ritornato in sé e resosi conto di ciò che ha fatto, decide di espiare la terribile colpa e, anche per volere dell’oracolo di Delfi, si pone alle dipendenze di Euristeo, re di Tirinto, che gli impone le celeberrime DODICI FATICHE.

Ercole era già nel 1400 simbolo di intelligenza unita alla forza, un simbolo allusivo alle qualità della famiglia Medici, quindi Bandinelli decise di rappresentare una di queste fatiche, più precisamente la numero dieci: “rubare i buoi di Gerione”. La leggenda narra che Ercole aveva appena rubato i buoi al mostro Gerione e li stava portanto ad Argo, quando fu attaccato da un altro mostro, Caco per l’appunto, che gli prese una parte del bestiame. Caco portò le bestie nella sua grotta, ma una di queste rispose al richiamo di Ercole. L’eroe trovò il nascondiglio e attaccò Caco, che cercò di difendersi vomitando dalle fauci una grande fumata, ma fu tutto invano.

Bandinelli rappresenta il momento in cui Ercole, dopo aver balzato attraverso il fuoco, afferra il mostro e lo stringe tanto da fargli uscire gli occhi dalle orbite, uccidendolo.
L’artista era un grandissimo ammiratore di Michelangelo ma, secondo alcuni critici, in quest’opera lo imita solo nel “gigantismo”. Benvenuto Cellini ad esempio, suo antagonista alla corte di Cosimo I, dirà di questa statua: “se gli si leva i capelli rimane solo il cervellino e se appoggiato al muro sembra un saccoccio di poponi”. Questo per sottolineare l’eccessiva importanza data ai muscoli.

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Ercole e il Centauro Nesso (Giambologna, 1599)

Altra opera che troviamo nella Loggia dei Lanzi è “Ercole e il centauro”. L’autore è Giambologna (nome italianizzato di Jean Boulogne), artista proveniente dalle Fiandre e trasferitosi a Roma nel 1550 per studiare la statuaria antica e le opere dei moderni, in particolare quelle di Michelangelo.

È noto che Michelangelo fosse molto critico con colleghi e aspiranti artisti. Non si fece molti problemi nel dichiarare che non apprezzava affatto lo stile di Giambologna, ritenendolo troppo approssimativo. L’artista fiammingo, tuttavia, continuò ad emularlo e divenne a fine ‘500 il più grande scultore manierista di Firenze, conquistando anche il gusto della corte medicea.

Anche questa è un’opera che si ispira al mito di Ercole e ad una delle sue celeberrime fatiche: “ripulire in un giorno le stalle di Augia”. L’eroe deviò le acque dei fiumi Alfeo e Peneo, riversandole nelle stalle del re dell’Elide, in cui si accumulava letame da circa trent’anni. Le stalle furono subito ripulite ed Ercole ebbe il suo successo. Sulla via del ritorno, tuttavia, vide una giovane in pericolo tra le grinfie di un centauro e decise di aiutarla.
Giambologna immortala il momento in cui l’eroe piega con la sua forza il centauro, che sta cercando di sfuggirgli con una forte torsione del busto. Guardando l’opera si nota subito l’incredibile plasticità dei corpi e una forte propensione alla tensione dinamica delle figure, di chiara ispirazione michelangiolesca.

Il Ratto delle Sabine (Giambologna, 1583)

Altro capolavoro di Giambologna è questo. Collocato nel 1585 nella loggia dei Lanzi dal Granduca Francesco I (primogenito di Cosimo I), l’opera è ritenuta il primo gruppo scultoreo europeo ad offrire una perfetta visuale da qualunque parte la si osservi. Giambologna la eseguì senza pensare ad un soggetto preciso, ma volendo dare un saggio delle sue abilità nel rendere l’anatomia e i movimenti umani. Solo in seguito fu dato all’opera il titolo “Ratto delle Sabine”.

Il gruppo scultoreo ricorda infatti un noto mito romano: dopo aver fondato Roma, Romolo vuole assicurare alla città una discendenza certa e duratura. Cerca di stabilire nuove alleanze, ma non ha successo, perciò organizza delle feste solenni in onore di Nettuno ed invita i sabini e le popolazioni confinanti. Nel corso delle celebrazioni, al segnale convenuto, i giovani romani rapiscono le fanciulle sabine scacciando i parenti delle giovani e da ciò ne consegue un’inevitabile guerra tra le due parti.
Giambologna immortala il momento concitato del rapimento: Un giovane romano afferra e solleva una giovane Sabina. In basso un uomo più anziano, probabilmente il padre della ragazza, tenta di bloccare il rapitore. Sul volto della ragazza e su quello del vecchio vediamo la stessa espressione disperata, lo stesso senso di impotenza. Ma soprattutto i tre corpi sono intrecciati l’uno all’altro e sembrano creare una spirale che sale verso l’alto, un effetto dinamico davvero notevole.

Perseo con la testa di Medusa (Cellini, 1554)

Altro famoso eroe della mitologia classica è Perseo, figlio di Danae e Giove. Il re degli dei, innamoratosi di Danae, si unisce a lei sotto forma di pioggia d’oro. Il padre della fanciulla, al quale un oracolo ha predetto che sarà ucciso da suo nipote, ordina di mettere Danae e Perseo in una cassa e di gettarli in mare. Raggiunta l’isola di Sefiro, i due vengono salvati dal fratello di Polidette, il re dell’isola. Polidette si invaghisce di Danae e, per liberarsi della scomoda presenza di Perseo, lo incarica di portargli la testa di medusa.

Ma chi era Medusa?

Medusa è una delle tre famose gorgoni, l’unica considerata mortale. Nelle rappresentazioni più antiche è orrenda, mentre in versioni più recenti (ne è un esempio la testa del Cellini) è descritta come una creatura bellissima e spaventosa allo stesso tempo.
Il mito narra che Poseidone si era innamorato di lei quando era ancora una bellissima fanciulla e una notte la sedusse nel tempio di Atena. La dea si irritò profondamente per l’affronto subito e trasformò la fanciulla in un mostro: una creatura con serpi sibilanti sulla testa e uno sguardo terrificante, così potente che chiunque la osservi è trasformato in pietra.
Con l’aiuto di Atena, che gli dona uno scudo lucente, Perseo si avvicina a Medusa senza guardarla negli occhi e riesce a mozzarle la testa.

Il capolavoro bronzeo che ammiriamo in piazza della Signoria fu commissionato da Cosimo I dopo il suo insediamento come Duca della città e fu realizzata tra il 1545 e il 1554. Fu subito collocata nella Loggia dei Lanzi, dove poteva ambiziosamente confrontarsi con il David di Michelangelo e la Giuditta di Donatello, ma soprattutto acquisì un forte significato politico.
Perseo è in piedi sul corpo di Medusa appena decapitata, con la spada impugnata nella mano destra, mentre la sinistra solleva trionfante la testa del mostro tenuta per i capelli.

È chiaramente un monito per il popolo fiorentino, un’opera che deve suscitare timore: il Duca che da un “taglio” al periodo repubblicano, rappresentato da Medusa, oppure il Duca che punisce chiunque decida di ribellarsi al suo potere…

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Menelao che sorregge il corpo di Patroclo (autore e data sconosciuti)

Altro personaggio della mitologia greca è Menelao: è il re di Sparta e marito di Elena, che Paride portò a Troia causando la spedizione greca contro la città. Durante la guerra di Troia, Achille si ritira dalla battaglia e Patroclo indossa le sue armi, riuscendo a ribaltarne le sorti. Ma non si limita a respingere i troiani e con ciò va incontro alla morte, sarà Ettore a sferrargli il colpo fatale.

I due schieramenti lottano per accaparrarsi il cadavere di Patroclo e Menelao combatte per il suo possesso. Difende quel corpo fino al tramonto, ed infine riesce a portarlo in salvo presso le navi.
La statua nella Loggia de’ Lanzi è la copia di un originale greco del IV secolo a.C. e venne regalata da Papa Pio V a Cosimo de’ Medici. Arrivò a Firenze nel 1579.

Ratto di Polissena (Pio Fedi, 1866)

Rimaniamo in tema “Guerra di Troia”, perchè non possiamo non citare il “Ratto di Polissena”, unica opera moderna tra i capolavori antichi e rinascimentali nella loggia dei Lanzi.
Polissena è la figlia minore di Priamo e viene rapita per essere sacrificata e propiziare il favore degli dei. Pio Fedi sottolinea la violenza del rapimento in modo quasi teatrale: in basso il corpo di Polidoro, caduto per difendere la sorella. Sopra di lui la figura dominante di Pirro, che con la spada impugnata nella mano destra sta per sferrare un colpo ad Ecuba, la madre di Polissena, e lei a sua volta cerca di trattenerlo.

Dunque queste sono le leggende e le figure mitologiche che hanno ispirato alcuni degli artisti più illustri della storia di Firenze. Molto spesso i committenti, in particolar modo i Medici, si servivano degli artisti proprio per esaltare le proprie virtù. Conoscere queste storie ci permette quindi di raggiungere il cuore dell’opera scultorea e comprenderne lo scopo.

Ovviamente in piazza della Signoria sono rappresentate anche storie bibliche, basti pensare al David e a “Giuditta e Oloferne”, entrambe copie di due capolavori di Michelangelo e Donatello…ma questa è un’altra storia.

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Articolo di Diletta Massi